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sabato 28 marzo 2009

"QUESTI SLAVI BARBARI E INFERIORI PARLERANNO SOLTANTO ITALIANO"


"QUESTI SLAVI BARBARI E INFERIORI
PARLERANNO SOLTANTO ITALIANO"

di FERRUCCIO GATTUSO

Venezia Giulia tra deslavizzazione e foibe.
Solo da pochi anni, la storiografia del nostro paese sta cominciando a gettare il proprio sguardo sul tragico evento detto delle foibe. Ragioni di opportunità politica, più spesso di pavidità, hanno consigliato che - sul massacro sistematico compiuto tra il maggio e il giugno 1945 dalle forze tito-comuniste nei confronti dei gruppi di nazionalità italiana in territorio giuliano - calasse una cappa di silenzio.
Il crollo del comunismo, con il conseguente mutamento dei ruoli sulla scena internazionale, ha portato a una situazione favorevole al raggiungimento della verità. Prima il rapporto di alleanza tra forze comuniste italiane e iugoslave, poi il ruolo strategico che poteva svolgere la Yugoslavia di Tito, ribelle a Stalin e all'URSS dal 1948 e quindi utile all'Occidente, fecero sì che vincesse la politica degli "occhi chiusi".

Le foibe - le fenditure carsiche nelle quali vennero gettati, morti e vivi, legati fra loro, fino a diecimila italiani (ma sulle cifre persistono controversie), in una vera e propria mattanza etnica ad opera dei partigiani titoisti - sono rimaste, così, un "imbarazzo" tra Italia e Yugoslavia, uno scheletro da lasciare nell'armadio, magari spiegandolo sommariamente come una "naturale" reazione alla politica e alle persecuzioni fasciste, anti-slave, nella regione di confine.

Data questa premessa sulla necessità di dare una giusta dimensione alla tragedia delle foibe, e auspicando che la loro cruda verità possa un giorno essere insegnata nelle nostre scuole, con questo articolo vogliamo compiere un viaggio, per quanto sintetico, proprio negli eventi precedenti, e cioè nella politica di denazionalizzazione e deslavizzazione attuata dal movimento e dal regime fascisti in territorio giuliano, sin dalla sua ascesa al potere. In qualche caso, ancora prima. Precisando che questi fatti non costituiscono - in alcun modo, per nessun motivo - una scusante o un'attenuante per l'incubo delle foibe che seguì.

Italia liberale e regime fascista: politiche di confine
Basti in questa sede un accenno alla percezione che la popolazione slava ebbe, all'indomani della Prima guerra mondiale, della presenza del governo italiano in territorio giuliano e in genere nel Nord-Est. La storiografia slovena non fa infatti molta differenza tra le strategie attuate dal governo liberale che emerse vittorioso dal conflitto del '15-'18 e il successivo regime fascista: l'azione delle autorità militari italiane fu comunque quella di limitazione delle attività degli intellettuali sloveni e della chiusura di molte scuole di lingua slovena. La storiografia italiana imputa la presenza delle misure "anti-slave" adottate come un segno di impreparazione e di pressappochismo delle autorità locali regie, che avrebbero dovuto attenersi alle direttive di Roma - miranti ad un inserimento morbido e graduale di queste terre nel Regno - e che si videro condizionate dall'atteggiamento aggressivo dei nazionalisti e dei militari presenti sul territorio.

L'impresa di Fiume, compiuta da Gabriele D'Annunzio, sebbene distaccata dalla cornice giuliana, contribuì indubbiamente ad esacerbare gli animi e a radicalizzare la situazione. Un altro elemento importante fu l'accostamento tra antislavismo e anticomunismo, in un quadro schematico che riemergerà, più vivo che mai, nel secondo dopoguerra, questa volta a danno degli italiani. Per i partigiani titini "italiano e fascista" sarebbe divenuto una tautologia. In ogni caso, le forze socialiste italiane si dimostrarono sempre solidali con le popolazioni slave e, in specifico, slovene, e il fascismo ebbe gioco facile nel coniare terminologie come "slavocomunista".

A sostenere l'operato antislavo del movimento fascista, e delle compiacenti autorità locali di ispirazione nazionalista, vi era anche la carta scritta: quella del Trattato di Rapallo del novembre 1920, che avrebbe dovuto regolare un certo equilibrio tra le varie comunità di nazionalità differenti nella regione, ma che alla fine risultò essere (non dimentichiamo che gli italiani vi parteciparono da vincitori del conflitto mondiale) uno strumento per arginare gli slavi: l'Italia non si vedeva obbligata a particolari misure di tutela delle minoranze slovena e croata, mentre otteneva particolari diritti e strumenti di difesa per la comunità italiana in Venezia Giulia. È questa quindi l'atmosfera nella quale accadono gli eventi dell'Hotel Balkan.

Fiamme all'Hotel Bakan
Si può dire che il primo atto che segna l'approdo del fascismo in terra giuliana sia l'incendio dell'Hotel Balkan, a Trieste. È il 13 luglio 1920, e l'atmosfera è resa elettrica da poche ore: a Spalato, il giorno prima, alcuni ufficiali della Marina italiana appartenenti alla nave "Puglia" si erano impossessati di una bandiera iugoslava, generando scontri con la popolazione dalmata. In questi scontri non mancarono i morti, su entrambi i fronti. Lo scenario, da qualche mese, esattamente dalle prime settimane dello stesso anno, si era radicalizzato con l'arrivo nel Nord-Est di un uomo di Mussolini, l'attivista Francesco Giunta, laziale, completamente avulso dalla conoscenza del territorio, dei complessi equilibri sociali ed etnici. Una scintilla, in una polveriera. Fu proprio Giunta a raccogliere a Trieste, in Piazza Unità, una moltitudine di fascisti e di gruppi d'ispirazione nazionalista italiana per una manifestazione dichiaratamente antislava. Il comizio tenuto da Giunta è di quelli che accendono gli animi: non è certo l'arma della retorica che manca ad un attivista come lui. In Piazza Unità si registrano così le prime intemperanze, che vedono la morte di un giovane italiano di nome Giovanni Nini.

Le cronache non furono mai chiare sull'accaduto, ma c'è più di una probabilità - come ricorda Gianni Olivia nel suo "Foibe" - che l'incidente fosse stato "provocato ad arte per scatenare la folla". L'effetto è quello di scatenare gli squadristi fascisti che, in massa, si dirigono vero quello che, per gli italiani, era conosciuto come l'Hotel Balkan, e per gli slavi il Narodni Dom, letteralmente "casa del popolo". Tra queste mura venivano ospitate tutte le principali organizzazioni economiche e culturali della comunità slovena triestina, divenendo di conseguenza il simbolo più importante degli slavi della zona. Quando gli squadristi irrompono nell'Hotel Balkan, l'edificio è fortunatamente vuoto ma ciò che ne seguirà - un'impressionante devastazione sistematica - viene ricordata dallo stesso Renzo De Felice nel suo "Mussolini il rivoluzionario" "il vero battesimo dello squadrismo organizzato".

Le "prove" all'Hotel Balkan, oltre a segnare un momento tristemente importante nella storia del fascismo di confine e della politica di deslavizzazione, furono la base sulla quale il movimento fascista organizzò tutte le sue azioni successive, a cominciare dalle "cacce" ad opera della camice nere nelle campagne padane.
L'Hotel Balkan viene incendiato, e gli squadristi impediscono l'intervento dei vigili del fuoco: nelle fiamme del "Narodni Dom" salgono al cielo archivi, testimonianze, libri, la memoria della comunità slovena triestina. Vi sono delle vittime: le uniche persone all'interno dell'edificio sono lo sloveno Hugen Roblek e sua figlia, che si gettano dal primo piano. Roblek muore sul colpo, la figlia sopravvive.

Nelle ore e nei giorni che seguono, la violenza fascista non si arresta: squadracce di camice nere assaltano la tipografia del giornale "Edinost", le sedi delle banche slovene, studi e uffici di professionisti sloveni, nell'indifferenza delle autorità regie e delle forze dell'ordine. Il futuro Duce avrebbe definito l'operazione "il capolavoro del fascismo triestino". Il fascista Rino Alessi, che avrebbe diretto il quotidiano "Il Piccolo" negli anni del regime, commentò così quei giorni: "Le grandi fiamme del Balkan purificano finalmente Trieste, purificano l'anima di tutti noi".

La "vittoria mutilata", terreno fertile per il fascismo Non vi è dubbio che il movimento fascista poteva contare su diversi fattori ad esso congeniali per esacerbare la situazione in territorio giuliano: il tema della "vittoria mutilata" si rivelò fondamentale. Il patto di Londra stipulato nel 1915, alla vigilia dell'intervento bellico dell'Italia al fianco degli Alleati, aveva comportato alcune promesse, che nel dopoguerra sembravano smentite da Francia, Stati Uniti e Inghilterra. L'Italia avrebbe dovuto espandersi nei territori di Trieste, Gorizia e Istria.
La creazione di uno stato iugoslavo indipendente - decisa alla Conferenza di Pace di Parigi - crea però un caso internazionale non indifferente: il principio dell'autodeterminazione dei popoli avanzato dal presidente americano Wilson risultava essere una miccia in una polveriera: quale confine dare all'Italia? Alla fine, per oltre trecentomila sloveni, l'annessione al Regno sabaudo verrà sentito come un'imposizione. Il repertorio, in questi casi, è purtroppo noto: in attesa della definizione dei confini, le autorità italiane cercano di nazionalizzare a forza determinate aree, presentandole come indubbiamente italiane. Se gli sloveni ambiscono ad unirsi al Regno iugoslavo indipendente che sta per nascere, gli italiani favoriscono tutte le possibili manifestazioni nazionaliste. E, in questo quadro, i fascisti nuotano come pesci in un acquario:

"Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava - commenterà Mussolini nel settembre 1920 durante un suo "tour" in Friuli e Venezia Giulia - non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani".

Gli eventi che seguiranno a queste parole sono il consolidamento della federazione fascista di Trieste - che nella primavera del 1921 diventa la maggiore di tutta Italia, con quasi quindicimila iscritti - e le operazioni squadriste in occasione delle elezioni politiche del maggio dello stesso anno: le camice nere entrano in azione in tutto il territorio giuliano e friulano, a Trieste, come Gorizia, Monfalcone, Pordenone, in definitiva nei maggiori centri urbani industriali, dove la maggioranza restava italiana. Le operazioni delle squadracce si allargano a macchia d'olio, poi, verso la campagna, a maggioranza slava, slovena e croata. Vengono colpite tutte le associazioni e in genere tutte le strutture di aggregazione slave, i circoli del dopolavoro. In occasione dell'appuntamento elettorale, il già citato Giunta, l'uomo del Duce, tiene saldamente le redini del movimento ed è il boss locale incontrastato. Tutto è pronto, ora, per l'opera di definitiva deslavizzazione. Con alle spalle un governo, finalmente fascista.

Il fascismo al potere: la politica del regime nel territorio giuliano
Per il nuovo regime fascista che si instaura nell'ottobre 1922, la politica del cosiddetto "fascismo di confine" diventa una bandiera da sventolare in nome del nazionalismo e dell'italianità. Una politica aggressiva nel Nord-Est, e nei Balcani era naturalmente nell'ordine delle cose, e nella natura della dittatura che, nei mesi a seguire, si sarebbe progressivamente instaurata. La politica di deslavizzazione partiva dall'assioma che le comunità slovene di confine non avessero mai condiviso un sentimento di unità nazionale, essendo state appartenenti all'ormai dissolto Impero austro-ungarico.

Tra le prime misure locali del governo Mussolini ci sono gli effetti della Riforma Gentile del 1923: nelle scuole pubbliche di stato l'unica lingua ammessa è l'italiano. Questo provvedimento mira ad una deslavizzazione linguistica a lungo termine (e difatti il regime si rivelerà alquanto efficiente con interventi sulla toponomastica della regione). Un altro provvedimento attuato dal governo Mussolini è la creazione dell'Ispettorato speciale del Carso, un'istituzione che avrebbe controllato militarmente le campagne slovene. Poste sotto la guida di Emilio Grazioli, le squadre fasciste attuano operazioni di intimidazione, che si fanno via via sempre più crude con il consolidarsi del regime.

Dopo il 1925, la politica di snazionalizzazione corre a passo spedito: viene proibito l'uso di lingue diverse dall'italiano nei tribunali, e negli uffici amministrativi. Successivamente, in tutti i negozi e in tutti i luoghi pubblici. Si proibisce che in suddetti luoghi si canti o si discuta in lingua slava. Come detto, i nomi delle località vengono tutti italianizzati, le insegne dei negozi in lingua croata e slovena vengono rimosse. Ulteriore provvedimento, quello che colpisce la stessa identità della persona: il regio decreto del 7 aprile 1927 sentenzia l'italianizzazione dei cognomi. Per fare solo un esempio, il comunissimo cognome Vidalich diventa di conseguenza Vidali.
Nel giugno 1927 il regime fascista, attraverso il Ministero dell'Interno stringe il cerchio intorno agli elementi più significativi della cultura slava: quasi tutte le organizzazioni culturali ed economiche slovene e croate della Venezia Giulia vengono soppresse, i beni vengono confiscati, e si lasciano esistere solo alcune società di assistenza e di mutuo soccorso. Condizione che durerà solo fino alle porte degli anni trenta. Dopodiché qualsiasi presenza slava - che il regime definisce, con termine spersonalizzante, "allogena" - scompare.

Evidentemente, nella scuola l'operato della politica fascista di deslavizzazione si rivela inesorabile: i giovani sono la classe dirigente del futuro, e la proibizione delle lingue "allogene" in qualsiasi situazione scolastica, come detto, è la cosa più scontata. Non solo: ogni scuola slava viene chiusa (l'ultima a chiudere è la scuola privata slovena del quartiere San Giacomo a Trieste, nel 1930). Legato al tema dell'istruzione è quello dell'interpretazione e lettura degli avvenimenti storici: tutto passa sotto l'occhio revisionista e "normalizzatore" del nazionalismo italiano. A guidare questa politica è il provveditore di Trieste, il siciliano Giuseppe Reina, autore del bollettino intitolato "Scuola di confine", che porta alla chiusura di ogni istituto non italiano e alla rimozione di qualsiasi insegnante "allogeno".

Un altro fronte sul quale il "fascismo di confine" combatté la sua battaglia di deslavizzazione fu quello del clero e dei rapporti con la Chiesa cattolica: dopo l'insegnate, il prete parrocchiano così come la dirigenza ecclesiastica della regione giuliana andavano "normalizzati". Nel clero la società rurale (e quindi a maggioranza slava) si identificava per tradizione: e proprio i preti vengono visti come la minaccia primaria, nella loro difesa dei valori culturali delle genti slovene e croate. Ovviamente, i primi ad essere colpiti sono i sacerdoti sloveni e croati: gli squadristi non perdonano, e si rendono protagonisti di aggressioni fisiche e, intimidazioni nei casi più innocui, e di attacchi a canoniche. A queste azioni formalmente irregolari degli anni prima del 1922, si sostituisce la politica sistematica del regime fascista.

Lo Stato - secondo disposizioni del 1925 - non può permettere che, in queste zone di confine, vi siano sacerdoti che officino la messa in lingua croata o slovena. Il congresso dei fascisti istriani di quello stesso anno afferma che "il fascismo poggia su tre cardini: Dio, Patria, Famiglia". Tuttavia, precisa in un documento, "noi affermiamo che in Italia si può pregare solo in italiano". La posizione del regime mette in chiara difficoltà la comunità cattolica italiana, che si vede costretta tra la "necessità" del patriottismo e il credo universalistico.
Il Concordato del 1929, si può dire, aggrava la situazione: la Chiesa è venuta a patti con Mussolini e, per assicurarsi vantaggi di posizione, accetta di mettere in condizione di non nuocere alcune figure rappresentative giuliane, come l'Arcivescovo di Gorizia, Monsignor Borgia Sedej, e il Vescovo di Trieste, Monsignor Luigi Fogar. Questi due importanti personaggi cercano di difendere l'autonomia della Chiesa dal regime fascista, così come il diritto delle comunità croate e slovene di potere celebrare messe in lingua slava.
Tra il 1931 e il 1936, Sedej e Fogar vengono allontanati, e sostituiti con figure più malleabili e accondiscendenti verso il fascismo. All'interno del clero si creano fronti contrapposti: alti prelati come Monsignor Antonio Santin, o Monsignor Giuseppe Nogara - il primo Vescovo di Trieste, il secondo Arcivescovo di Udine - affermano senza mezzi termini la necessità del nazionalismo nella regione. Nelle campagne, però, molti sacerdoti continuarono a officiare messa in croato e sloveno, generando attriti che, a questo punto, si trasformavano in lotte di potere gerarchico all'interno del clero.
Nella stessa società giuliana, poi, il regime fascista mette in campo tutte le tecniche di ogni sistema totalitario: polizia segreta, delatori, capillare controllo sociale. La comunità slava reagisce con organizzazioni clandestine, soprattutto composte da giovani, come il "Tigr" (dalle sigle slovene di Trieste, Istria, Gorizia e Rijeka, N.d.R.), di orientamento a sua volta nazionalista, collegata ai servizi segreti iugoslavi e disposta la terrorismo. La repressione fascista che seguiva agli atti terroristici era evidentemente durissima. Accanto ai nazionalisti, non mancano i comunisti: la "Borba" (letteralmente, "lotta"), praticava sabotaggi a impianti militari e delle comunicazioni, così come incendi a scuole italiane e a sedi fasciste. Tra le figure più combattive del "Tigr" va menzionato Pinko Tomazic, giovane intellettuale sloveno. Che cercò di coniugare nazionalismo e internazionalismo di differenti colori politici nella comune lotta antifascista. Tomazic troverà la morte nel 1941, con l'accusa di cospirazione armata, in seguito alla sentenza del Tribunale Speciale convocato a Trieste nel mese di dicembre.

Una strategia di più ampio respiro si rivela quella dell'allontanamento fisico delle popolazioni slave dalle proprie terre, quindi una vera e propria "bonifica etnica", che il regime fascista attua: tra il 1928 e il 1930 vengono sciolte tutte le cooperative di acquisto e vendita e le casse rurali, di tutti gli istituti finanziari dei quali si avvalevano i contadini croati e sloveni. Gli istituti finanziari italiani propongono tassi di interesse proibitivi e così non resta che l'esodo. Oltre ad una crisi economica prodotta, si può dire, ad arte, e che avrà ripercussioni su tutta l'area balcanica, per molti anni a venire. Gli agricoltori sloveni e croati devono mettere all'asta le proprietà, arraffate da speculatori senza scrupoli. Il regime rende "scientifica" questa operazione istituendo l'Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie, che rileva le terre messe all'asta degli "allogeni" e le assegna ai coloni italiani. Eppure, la presenza slava nella regione resterà mediamente alta: molti agricoltori preferiranno passare da proprietari a dipendenti dei nuovi padroni italiani, piuttosto che abbandonare la terra.

Non c'è dubbio che la politica fatta di soppressioni e intimidazioni del fascismo di confine abbia contribuito a rafforzare nelle popolazioni croate e slovene locali l'equazione italiano/fascista, che avrebbe portato successivamente, alla metà degli anni quaranta ad esiti tragici, durante la guerra di liberazione.
Il partito comunista italiano, poi, seppe inserirsi benissimo in questa situazione, alleandosi con i "compagni" slavi e realizzando un'intensa campagna propagandistica nella comunità croata e slovena. Italiani e slavi, sotto le bandiere del comunismo e dell'internazionalismo, avrebbero combattuto nazisti e fascisti (nella primavera del 1941 le truppe dell'Asse avrebbero infatti invaso il regno di Yugoslavia, smembrandolo).

L'imbarazzo sarebbe venuto solo molti anni dopo, nei giorni dello scisma tra Tito e Stalin, nel giugno 1948: la fratellanza tra comunisti italiani e iugoslavi diventava "eresia", e anzi Tito sarebbe stato considerato a capo di una "cricca fascista". Ma questa, come si dice, è un'altra storia.

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