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giovedì 5 marzo 2020

Meteo

lunedì 19 agosto 2019

Ricordati di me

La rabbia si perde nel vento,
la gioia vola verso il cielo,
la tristezza s'impregna nella terra,
la malinconia brucia i cuori.

Tutti ricordi ed esperienze
che un giorno saranno nemmeno polvere,
ma rimarranno per un po' nei caratteri altrui,
nei movimenti altrui.

Spero di rimanere per un po' accanto a te,
che potrai sentirmi nella tua mente e nel tuo corpo,
mi nutrirai ancora, mi cercherai.
Io ci sarò.


lunedì 19 settembre 2011

Snifferson Player

sabato 17 settembre 2011

lunedì 30 maggio 2011

It seemed Love

Yet at the beginning seemed to love,
How many nights talking and make love till late ...

and every morning we woke up with a crazy sleep for a little sleep but happy
and with no intention of stopping,
to continue it every night.

Now it seems that your past was gone,
were quiet,
you lived only the present
dream of the future with me.

And instead,
so here we are with problems of daily life that you have awakened my past.

Your suffering and lost love,
that my "sad past" returns to the surface inside of you,
and put before us together with the difficulties of this difficult life.

Think and only that,
the difficulties in front of you ... in the present and future
but without me,
without sharing all of this,
with all the difficulties we have in this life.

You are choosing an easier way,
without me,
with no remorse or problems.

So who am I for you! None.

Do not feel anything and this is evident,
was obvious when you've made your choices in your life,
your future without me.

Bet on outside help without me,
already budgeted,
and that's what you told me several times,
and now put into practice.

So who am I for you! Nothing ...

I've had to leave,
it was all in your mind for some time and now you're successful ...
Here I am out of your life!

And I'm sinking,
and I can not help it ...

Only the bitterness that surrounds me you did not have confidence in me ...

venerdì 9 luglio 2010

Galleggiare

Heaven... I'm in heaven,
And my heart beats so that I can hardly speak.
And I seem to find the happiness I seek,
When we're out together dancing cheek to cheek.

Heaven... I'm in heaven,
And the cares that hung around me through the week,
Seem to vanish like a gambler's lucky streak,
When we're out together dancing cheek to cheek.

Oh, I love to climb a mountain,
And to reach the highest peak.
But it doesn't thrill me half as much
As dancing cheek to cheek.

Oh, I love to go out fishing
In a river or a creek.
But I don't enjoy it half as much
As dancing cheek to cheek.

Dance with me! I want my arms about you.
The charms about you
Will carry me through to...

Heaven... I'm in heaven,
And my heart beats so that I can hardly speak.
And I seem to find the happiness I seek,
When we're out together dancing cheek to cheek.

mercoledì 19 maggio 2010

Basterebbe solo un pò

Non cambierai mai, non cambierai mai se non sei disposto a perderti, l'Amore ha un gusto dolce amaro, di giorno fa caldo, di notte molto freddo, chiedimi, amore mio chiedimi, invece di togliermi tutto dopo, quando sarai diventato un Grande Solitario, avrai capito di non esserti fermato mai, di non esserti mai perso, di non cantare più, quando capirai di essere giunto capirai che non sei mai partito, credimi. Ora, che e tardi, ora che tutto è perso, torna ad essere giovane, torna ad essere libero, torna a casa

giovedì 17 dicembre 2009

Indro Montanelli su Berlusconi

Montanelli: "L'Italia di Berlusconi
è la peggiore mai vista"

"Quell'uomo è una malattia: si cura solo con il vaccino
Una bella iniezione di Cavaliere premier per diventare immuni"


di LAURA LAURENZI


MILANO - Sembra essere diventato il nemico numero uno del Polo. Berlusconi gli dà del bugiardo e dell'ingrato, Fini lo descrive come l'ennesimo giornalista "strumentalizzato" dalla sinistra, i giornali della destra portano il suo nome nei titoli di testa in prima pagina. La sua "colpa" è il tradimento: ha dichiarato di votare per il centrosinistra, ha partecipato alla trasmissione di Santoro, dove - capo d'imputazione gravissimo - ha persino dato ragione alla ricostruzione fatta da Marco Travaglio sulle vicende del Giornale. Indro Montanelli ha risposto con le sue armi: un editoriale al veleno sul Corriere della sera in cui restituisce l'accusa di mendacio al Cavaliere, gli replica punto per punto e chiosa: "Chiagne e fotte, dicono a Napoli dei tipi come lui. E si prepara a farlo per cinque anni di seguito". Dopo l'articolo, da ieri mattina il suo telefono non ha fatto che suonare.

"La cosa più impressionante - racconta Montanelli - sono state le telefonate anonime. Ne sono arrivate cinque una dopo l'altra, tre delle quali di donne. Non so chi avesse dato loro il mio numero, che è assolutamente introvabile. Dicevano tutte la stessa cosa: delle invasate che urlavano: lei che per vent'anni ha mangiato alla mensa di Berlusconi! Io, capirai? Come se io fossi stato mantenuto da Berlusconi".

Insomma, siamo alle minacce.
"Veramente la scoperta che c'è un'Italia berlusconiana mi colpisce molto: è la peggiore delle Italie che io ho mai visto, e dire che di Italie brutte nella mia lunga vita ne ho viste moltissime. L'Italia della marcia su Roma, becera e violenta, animata però forse anche da belle speranze. L'Italia del 25 luglio, l'Italia dell'8 settembre, e anche l'Italia di piazzale Loreto, animata dalla voglia di vendetta. Però la volgarità, la bassezza di questa Italia qui non l'avevo vista né sentita mai. Il berlusconismo è veramente la feccia che risale il pozzo".

Lei sembra veramente spaventato.
"No, spaventato no: piuttosto sono impressionato, come non lo ero mai stato. Va bene, mi dicevo, succede anche questo: uno dei tanti bischeri che vengono a galla, poi andrà a fondo. Ma adesso sono davvero impressionato, anche se la mia preoccupazione è molto mitigata dalla mia anagrafe. Che vuole, alla mia età preoccuparsi per i rischi del futuro fa quasi ridere".

Ma lei è sicuro che la partita elettorale sia già giocata? Il centrosinistra non ha nessuna possibilità di battere Berlusconi?
"Guardi: io voglio che vinca, faccio voti e faccio fioretti alla Madonna perché lui vinca, in modo che gli italiani vedano chi è questo signore. Berlusconi è una malattia che si cura soltanto con il vaccino, con una bella iniezione di Berlusconi a Palazzo Chigi, Berlusconi anche al Quirinale, Berlusconi dove vuole, Berlusconi al Vaticano. Soltanto dopo saremo immuni. L'immunità che si ottiene col vaccino".

Lei, Montanelli, oggi è diventato il problema politico principale del centrodestra. Da qualche giorno il suo nome è al centro delle dichiarazioni degli uomini del Polo.
"E' strano: io non avevo mai preso parte alla campagna di demonizzazione: tutt'al più lo avevo definito un pagliaccio, un burattino. Però tutte queste storie su Berlusconi uomo della mafia mi lasciavano molto incerto. Adesso invece qualsiasi cosa è possibile: non per quello che succede a me, a me non succede nulla, non è che io rischi qualcosa, è chiaro. Quello che fa male è vedere questo berlusconismo in cui purtroppo è coinvolta l'Italia e anche tante persone perbene.".

Tutta questa polemica è nata dal programma di Luttazzi. Lei vede programmi di satira politica in televisione? Come li giudica?
"Ne vedo, come no. Beh: l'unico modo per combattere questa cosa è la satira. Che sia sempre fatta bene però non direi, molto spesso è volgare anche quella. Ma forse è peggiore la facilità, la spontaneità con cui Berlusconi mente, e con cui le sue menzogne, a furia di ripeterle, evidentemente vengono bevute dagli altri. Lui racconta a modo suo la fine della mia direzione al Giornale, il giorno dopo la mia uscita, quando non ho potuto certamente influire più sulla stesura della cronaca. Paolo Granzotto scrisse un resoconto di come erano andate le cose. Ecco: andatevi a rileggere quella cronaca, coincide esattamente con le cose come le ho raccontate io. Berlusconi sostiene che io ero al Giornale sognando di farne un altro: non sta né in cielo né in terra. Questa menzogna è semplicemente una scemenza: quanta volgarità, quanta bassezza".

(26 marzo 2001)

E basta!!!

Berluscounter!

venerdì 10 luglio 2009

L'Italia non esiste

In Italia vi è un'assimilazione della "teoria naturale".

1851, Pasquale S. Mancini - Nazione: una società naturale d'uomini, da unità di territorio, d'origine, di costumi e di lingua conformata a una comunanza di vita e di coscienza sociale. Una società che doveva essere vivificata dalla coscienza della nazionalità. Quindi: 1 - popolazione; 2 - territorio; 3 - origini comuni; 4 - lingua; 5 - senso d'appartenenza, quindi, elemento volontaristico (senza il quale vengono logicamente meno i primi 4 punti).


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1 - Popolazione

Dal III millennio a.C. agli autoctoni si sovrapposero popoli dell'Europa centrale:

- Protolatini: siculi, itali, entri, latini etc..

- Italici: Oschi e Umbri

- Paleoveneti

- Celti

- Etruschi

- Greci

Con la "romanizzazione" (assimilazione di costumi, leggi, lingua, etc.) tale mosaico viene meno, ma prima che tale processo si concludesse, con il crollo dell'impero, si ha un fenomeno di "deromanizzazione" ad opera degli invasori e di conseguenza lo sviluppo di un nuovo mosaico non molto meno complesso del precedente.

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2 - Territorio

All'Italia - stato nel corso degli anni si è cercato di dare come supporto indubitabile, un'Italia partorita dalla natura: la cosiddetta "penisola". Secondo la geografia fisica però, non esiste affatto una regione naturale etichettabile come "Italia".

L'Italia da un punto di vista geografico non è altro che l'unione di cinque regioni naturali:

- Padania

- Appenninia

- Sicilia

- Sardegna

- Corsica

Da questo punto di vista, l'Italia può esistere soltanto "contro natura".

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3 - Origini comuni

Il termine "Italia" è stato coniato dai Greci che si stabilirono nella penisola a partire dall'VIII sec a.C. Inizialmente stava ad indicare soltanto l'odierna Calabria meridionale e successivamente tale termine inglobò territori sempre più verso nord.

· III sec. a.C.: i Romani dopo essersi impossessati del termine in questione, fanno giungere il limite settentrionale fino a metà dell'attuale Toscana.

· I sec. a.C.: la Pianura Padana viene inserita nell' “Italia” romana (Alpi, Sicilia, Sardegna e Corsica non sono incluse)

L'Italia è per i Romani soltanto un concetto geografico e non etnico (non a caso è divisa in 11 regioni a denominazione di origine etnica: Liguria, Etruria, Umbria, Lucania etc. Questo a dimostrazione delle diversità di base di quest'entità).

· V-X sec.: crolla l'Impero romano d'Occidente e si susseguono barbari, bizantini, longobardi e gli arabi in Sicilia. Il termine "italia" si smarrisce anche quale connotazione meramente geografica.

· XII-XIII sec.: nasce il Regno di Sicilia (così si consolidano le già grandi diversità economiche, culturali e sociali tra il sud e il resto), lo Stato della Chiesa e quella miriade di formazioni politiche quali i comuni, le signorie etc.

· XIV-XVIII sec.: arrivano i francesi, gli spagnoli e gli austriaci.

· XIX-XX sec.: Con il Congresso di Vienna i vincitori ripristinarono in parte la situazione pre-napoleonica dividendo l'Italia in 11 stati (gran parte dei quali sotto "tutela" straniera). Successivamente si avrà la nascita del Regno d'Italia.

Ha senso, a fronte di tutto ciò, parlare di origini o storia comune del cosiddetto "popolo italiano" ? E ha senso far coincidere il "Sorgimento" dell'Italia con l'Impero Romano, quando i romani stessi non consideravano Italia, quell'Italia che poi si vuol far credere come tale tramite il Risorgimento? Come può quindi, risorgere, ciò che non è mai esistito ?

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4 - Lingua

Così come l'identificazione delle regioni naturali è demandata alla geografia fisica, l'identificazione delle lingue è compito della scienza linguistica.

Attualmente la maggior parte degli Stati possiede una lingua ufficiale, lingua che in genere è codificata nell'ortografia, nel lessico, nella grammatica e nella sintassi. In genere, sbagliando, si tende però a chiamare "lingua", soltanto quelle lingue codificate e considerate ufficiali, mentre tutto il resto viene liquidato come "dialetto". Tali lingue ufficiali però, in genere, non sono altro che il frutto di un dialetto o di più dialetti con dati caratteri comuni.

La situazione linguistica di un secolo e mezzo fa nell'Italia - regione è raggruppabile in tre sistemi:

· lingue estranee alla romanizzazione: tedesco, sloveno e greco;

· lingue derivate dalla romanizzazione ma non peculiari della regione: francese e occitano;

· lingue derivate dalla romanizzazione e peculiari della regione: toscano; dialetti che pur discostandosi dal toscano vanno a comporre un sistema dialettale più vasto comprendente anche il toscano (è stato però appurato che i dialetti di questo sistema non condividono alcun tratto distintivo comune); sardo.

La lingua italiana quindi, tanto sbandierata quale carattere distintivo della "nazione italiana", appare, secondo la scienza linguistica, una nozione totalmente priva di fondamento.

Se mai bastasse la lingua a creare una nazionalità, dovremmo in tal caso iniziare a parlare di una Padania - nazione, di una Toscana - nazione, di un Mezzogiorno - nazione, di un Friuli - nazione e di una Sardegna - nazione, poiché questo, attualmente, è lo schema che va per la maggiore.

Secondo Tullio De Mauro, nel 1861, su una popolazione di circa 22.000.000 di abitanti, la lingua italiana era conosciuta soltanto da circa 600.000 persone, di cui 400.000 erano toscani. L'analfabetismo non giustificava certo tutto ciò, poiché l'italiano era abitualmente utilizzato da meno del 10% dei non analfabeti.

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5 - Senso di appartenenza

Per quanto riguarda lo sviluppo di questo argomento, l'autore è andato occupandosi di ciò che da un punto di vista strettamente democratico, ha legalizzato (ma non per questo legittimato) la nascita del Regno d'Italia e cioè i Plebisciti.

· 1859, la Lombardia viene annessa senza alcun plebiscito: 11 anni prima, dopo l'insurrezione milanese e il successivo arrivo delle truppe sarde in città, essendo l'ipotesi prevalente quella di una "Confederazione di stati italiani", il governo provvisorio di Milano rifiutò l'annessione immediata e propose un referendum in cui si proponeva una "fusione" tra i due Stati (scioglimento delle Camere piemontesi, elezioni a suffragio universale per l'elezione di un'assemblea costituente e governo misto residente a Milano per gestire tali elezioni). Quando però nel 1859 le truppe sarde tornarono nuovamente in città, la Lombardia venne semplicemente annessa senza alcun plebiscito e il Regno di Sardegna vi estese il proprio ordinamento amministrativo e le proprie leggi. Scrisse Carlo Cattaneo "Il Piemonte era inferiore in diritto penale alla Toscana, in diritto civile a Parma e in ordinamenti comunali alla Lombardia".

· Contemporaneamente, l'élite salita al potere in Toscana e nell'attuale Emilia-Romagna, reclamò l'annessione immediata e Torino a riguardo decise di indire dei plebisciti. I risultati furono totalmente drogati: in Toscana vi furono 366.000 voti favorevoli contro 19.000 contrari. Filippo Culetti (un agente segreto del Regno di Sardegna), fu inviato con 80 carabinieri in borghese in Toscana e Emilia e nel libro "La verità intorno agli uomini e alle cose del regno d'Italia" scrive "constatato come soltanto un piccolo numero di elettori si presentò, noi, nel momento della chiusura delle urne, vi gettammo i polizzini (naturalmente in senso piemontese) di quelli che s'erano astenuti" e poi "in alcuni collegi, l'immissione nelle urne dei polizzini degli astenuti, si fece con tanta trascuratezza, che lo spoglio dello scrutinio diede un maggior numero di votanti, di quello che lo fossero gli elettori iscritti". Nello stesso tempo, il "barone di ferro" Bettino Ricasoli impartiva le seguenti disposizioni "gli imprenditori agricoli, a capo dei loro amministrati, il più influente proprietario rurale a capo degli uomini della sua parrocchia, il cittadino più autorevole a capo degli abitanti di una strada, ordineranno e condurranno gli elettori alle urne della nazione" e in questa occasione nacquero le celebri parole sempre di Ricasoli "chi non vota, non pota! " (o meglio, sarà licenziato).

· Nel 1860, con la conquista del Regno delle due Sicilie, delle Marche e dell'Umbria, l'esperienza dei "plebisciti - farsa" si ripete nuovamente. Cesare Cantù, da Napoli, ci racconta "il plebiscito giungeva fino al ridicolo, poiché oltre a chiamare tutti a votare sopra un soggetto dove la più parte erano incompetenti, senza tampoco accertare l'identità delle persone e fin votando i soldati, si deponevano in urne distinte i "sì" e i "no", lo che rendeva manifesto il voto; e fischi e colpi e coltellate a chi lo desse contrario. Un villano gridò: "Viva Francesco II" e fu ucciso all'istante".

· Il 17 marzo 1861, il Parlamento di Torino proclamò Vittorio Emanuele II, primo Re d'Italia "per grazia di Dio e volontà della Nazione" (!!!)

· Nel 1866, con la terza guerra d'indipendenza e l'annessione del Veneto, i Sì a tal plebiscito furono il 99,99% e nel 1870, con l'annessione di Roma, i Sì furono il 98,9%

· Infine quando nel 1919-20 si ebbe l'annessione del Trentino, lo Stato italiano si guardò bene dal concedere nuovi plebisciti (che pure vennero chiesti), poiché in tal caso, data l'alta presenza di tedeschi e slavi, il risultato sarebbe stato alquanto pericoloso.

Appare quindi evidente quanto tali plebisciti furono predeterminati nei loro esiti e pertanto incompatibili con il libero esercizio della democrazia referendaria. Voto pubblico, registri elettorali maltenuti o addirittura inesistenti, mancanza di ogni controllo di identità dei votanti e aggiunta di voti inesistenti: così fu fatta, "democraticamente", ma senza l'appoggio degli "italiani", l'Italia.

Concludendo, per quanto riguarda il processo di unificazione politica dell'Italia, c'è da dire che termini come "risorgimento italiano" o "nazionalità italiana" sono da considerarsi totalmente fuori luogo, in quanto non ha mai avuto luogo un "sorgimento italiano", non esiste un "territorio naturale italiano", non esiste una effettiva "popolazione italiana dalle origini comuni", non esiste una originaria "lingua italiana" e soprattutto, non è mai esistito un "comune senso di appartenenza" da parte dei cosiddetti "italiani".

Il mito del Risorgimento italiano, da un punto di vista culturale, non è stato altro che un fenomeno illusorio, ma ben confezionato da una piccola e molto zelante élites politica-culturale, che per svariate ragioni credeva o più semplicemente voleva credere nell'esistenza di una nazionalità italiana. Ciò con il tempo, ha dato origine a forse uno dei più vasti esperimenti sociologici di questo mondo e cioè la creazione artificiale e coercitiva di una nazionalità, quella italiana. Si spiega bene a questo punto il detto "fatta l'Italia, bisogna fare gli italiani" e in ciò non vi sarebbe nemmeno niente di male, se non stessimo parlando di esseri umani.

Da un punto di vista strettamente politico, invece, il Risorgimento italiano non è stato altro che una semplice guerra di conquista, in certi casi dai tratti molto fortunati e portata avanti da una casa regnante che non proveniva nemmeno dalla penisola, ma bensì dalla Savoia francese, terra indubbiamente straniera.

martedì 19 maggio 2009

Al mondo...


Scrivere al mondo non è mai facile, ti puoi sbagliare, puoi cogliere una persona come un fiore e portarla al delirio, oppure non sfiori nemmeno un petalo. Scrivere al mondo e come far passare oltre il tuo corpo il cielo per regalare agli altri pezzi della tua coscienza, come una sorgente prende il carattere della montagna che penetra. Scrivere al mondo e una domanda con la risposta, scrivere al mondo ti fa sentire piccolo e grande, figlio e padre. Sorridere col mondo.

venerdì 24 aprile 2009

Inglobare, non dimenticare.


Consolare la propria anima dicendoti che hai ragione, che sei nel giusto…questo non fa di te una persona più forte, non impari niente, non accetti niente. È la via più semplice, meno dolorosa, lo so, ma la tua vita non cambia d’una virgola e il tempo intanto passa. Non si dimenticano cose del genere, non si riesce, io no e non lo voglio neanche.

giovedì 23 aprile 2009

Immaginami come vuoi


Se essere angeli vuol dire questo, se il flagello pesa sulle proprie idee e se le idee possono far così male, grazie Dio, io lo voglio ancora, nonostante qualche volta odio me stesso, nonostante le onde deformano le mie scogliere, dalle mie rughe nasce altra vita e l’orizzonte s’allarga. Non sono mai così vivo, non sono mai così leggero, come quando esse s’infrangono con tal forza d’entrare ancora in me, fino all’anima mia oscura. Se essere angelo, Amor mio, vuol dire perdersi dentro gli occhi tuoi, io lo voglio ancora.

martedì 31 marzo 2009

Passo parola, senza parole!


Testo:
"Buongiorno a tutti.
Non per guastare la festa a questa bella incoronazione imperiale del leader del popolo delle libertà che, come avete visto, a sorpresa è stato eletto primo, unico, ultimo imperatore del partito che aveva fondato sul predellino di una macchina e che quando l'aveva fondato Gianfranco Fini l'aveva subito fulminato dicendo: “siamo alla comica finale, noi non entreremo mai nel Popolo della Libertà e Berlusconi non tornerà mai più a Palazzo Chigi con i voti di Alleanza Nazionale”.
E quando qualcuno gli aveva chiesto “Possibilità che AN rientri all'ovile?”, risposta di Fini: “Noi non dobbiamo tornare all'ovile perché non siamo pecore”. Poi come avete visto sono tornati all'ovile quindi ne dobbiamo concludere che sono pecore o pecoroni.
Ecco, non è per guastare il clima idilliaco anche perché avete visto che sono talmente uniti che su 6000 delegati non se n'è trovato uno che votasse per un altro candidato; potevano pagarne uno almeno per votare per un altro candidato almeno facevano finta di averne due, invece no. E' stata proprio una cosa unanime che ha molto commosso il Cavaliere che non se l'aspettava: avete visto l'emozione con cui ha scoperto di essere stato eletto leader in quei congressi che proprio all'ultimo momento ti riservano questo colpo di scena finale. Chi l'avrebbe mai detto.
Ma diciamo che questo stava nelle cose. La cosa interessante è che a poco a poco si cominciano, con quindici anni di ritardo, a vedere i nomi e i cognomi dei veri padri fondatori di quest'avventura che adesso si chiama Popolo della Libertà, che prima si chiamava Casa della Libertà , che prima ancora si chiamava Polo della Libertà e che in realtà ha un unico padrone che si chiama sempre Forza Italia.
Quante volte abbiamo sentito rievocare la storia di Forza Italia, le origini... adesso c'è anche quel libro scritto in caratteri gotici, molto grosso per i non vedenti, probabilmente è la versione braille quella che Berlusconi ha mostrato in televisione, che invece della fiaba di cappuccetto rosso, di Cenerentola racconta la fiaba di uno dei sette nani: l'ottavo nano, anzi, come l'avevano ribattezzato i fratelli Guzzanti e la Dandini.


Craxi, questo sconosciuto

L'ottavo nano che nel 1993 cominciò a macinare idee, progetti che poi si tradussero in Forza Italia.
All'inizio ci dicevano che fu lui ad avere questa intuizione meravigliosa, anzi quando qualcuno insinuava che ci potessero essere dei rapporti, dei suggerimenti di Bettino Craxi, di alcuni strani personaggi siciliani che poi vedremo, veniva tutto negato: “non sia mai, noi non c'entriamo niente”. Anzi Berlusconi Craxi faceva proprio finta di non conoscerlo. Per la precisione, il 21 febbraio del 1994, ad un mese ed una settimana delle prime elezioni che Berlusconi vinse, tre settimane dopo il famoso discorso televisivo a reti unificate spedito in videocassetta ai telegiornali, quello della discesa in campo, Berlusconi era a Mixer, ospite di Giovanni Minoli che, conoscendo anche lui molto bene Craxi gli chiese quale fosse il suo rapporto con Craxi.
All'epoca Craxi era un nome impronunciabile, era il numero uno dei tangentari, stava facendo di gran fretta le valige perché di li a poco con l'insediamento del nuovo Parlamento i vecchi parlamentari avrebbero perso ipso facto l'immunità e sarebbe finito dentro. Allora stava apprestandosi alla fuga, alla latitanza verso Hammamet. Era un nome pericoloso, e Berlusconi, fedele alle amicizie e fedele come sempre, rispose a Minoli: “è una falsità, una cosa senza senso dire che dietro il signor Berlusconi ci sia Craxi. Non devo nulla a Craxi e al cosiddetto CAF”.
Un anno dopo, lui aveva già fatto il suo primo governo, era già cascato, c'era il governo tecnico Dini, alla Repubblica gli chiesero notizie di Craxi perché era venuto fuori da un vecchio consulente di Publitalia che aveva partecipato alla progettazione, addirittura pare fin dall'estate del 1992, Ezio Cartotto, alla nascita di Forza Italia, aveva raccontato che in queste riunioni, in quella decisiva di aprile del 1993, mente lui era li ad Arcore con Berlusconi si aprì una porta ed entrò Craxi e diede alcune indicazioni. Per esempio che bisognava mettere insieme le truppe berlusconiane con i leghisti, ma Craxi disse “mai con i fascisti”. Craxi aveva tanti difetti ma essendo un socialista i fascisti non li voleva vedere mentre, come abbiamo visto, Berlusconi si è portato dentro i fascisti e anche qualche nazistello per non disperdere i voti.
In ogni caso i giornali pubblicarono le dichiarazioni di Cartotto, che chi di voi vuole vedere nel completo trova nel libro “L'odore dei soldi”, lì c'è proprio il racconto di questa riunione nella quale Craxi spalancò una porta.
Berlusconi replicò negando. Io mi ricordo che in una conferenza stampa in quei giorni a Torino, al Lingotto, io gli chiesi se era vero che Craxi avesse partecipato a queste riunioni e lui, invece di rispondermi, mi disse “si vergogni di farmi questa domanda”. Era una conferenza stampa: in un altro paese immagino che tutti i giornalisti avrebbero rifatto la stessa domanda fino a ottenere la risposta, invece i colleghi, che sono quelli che fanno parte del codazzo, che sono ormai quasi di famiglia per lui, mi guardarono come dire: “ce lo disturbi, così ci rimane male, ci rimane storto per tutta la giornata”. Io mi ritirai in buon ordine, non conoscendo queste usanze altamente democratiche.
Berlusconi disse di nuovo: “Forza Italia e Craxi sono politicamente lontani anni luce. Posso assicurare che politicamente non abbiamo a che fare con Craxi e siamo stati molto attenti anche alla formazione delle liste elettorali”. Come dire, quello è un pregiudicato e noi i pregiudicati non li vogliamo. Non vogliamo neanche gli indagati, infatti Forza Italia nel 1994 faceva firmare una dichiarazione ai suoi candidati nella quale dichiaravano non solo di avere condanne ma nemmeno di avere mai ricevuto un avviso di garanzia, che è addirittura eccessivo come dicevamo la settimana scorsa. Per essere indagati basta essere denunciati da qualcuno, che magari si inventa le accuse.
“Non rinnego l'amicizia con Craxi ma è assolutamente escluso che Forza Italia possa aver avuto o avere alcun rapporto con Craxi”. 2 ottobre 1995.
Craxi è rimasto latitante dal 1994 al 2000 ad Hammamet. Nel gennaio del 2000 è morto. Stefania Craxi ha aspettato per sei anni che l'amico Silvio, che doveva molto se non tutto a Craxi, andasse a trovare suo padre e Berlusconi non c'è mai andato, è andato a trovarlo da morto al funerale.
Infatti, parlando al Corriere della Sera nell'agosto del 2004, Stefania Craxi dichiarava: “A Berlusconi non perdono di non essere mai stato a trovare mio padre neppure una volta.”.
L'avete vista, l'altro giorno piangeva felice durante la standing ovation riservata a Craxi su invito di Berlusconi dall'assemblea dei congressisti; evidentemente si è dimenticata o forse ha perdonato, o forse il fatto che l'abbiano portata in Parlamento l'ha aiutata a perdonare.
Sta di fatto che Craxi era un appestato, non si poteva dire che Craxi era uno dei padri fondatori di Forza Italia e poi dei suggeritori, visto che da Hammamet non faceva mai mancare i suoi amorevoli consigli, come emerse dalle famose intercettazioni depositate nel processo sulle tangenti della metropolitana di Milano, quelle che il giovane PM Paolo Ielo tirò fuori in aula per dimostrare la personalità criminale di Craxi che anche dalla latitanza continuava a raccogliere dossier a distribuire suggerimenti, ed era in contatto con il gruppo parlamentare di Forza Italia. Tant'è che il portavoce del gruppo parlamentare si dovette dimettere perché era solito sottoporre a Craxi le interrogazioni e le interpellanze parlamentari, e Craxi dava ordini su come orchestrare le campane contro i magistrati... anche questo lo trovate mi pare in “Mani Pulite” se non ricordo male.


L'altro padrino fondatore

Ma, andando avanti, l'altro giorno finalmente c'è stato lo sdoganamento postumo di Craxi: quindici anni esatti dopo la prima vittoria elettorale di Forza Italia Berlusconi ci ha fatto sapere pubblicamente, durante la standing ovation, che uno dei padri fondatori era Bettino. Non è male un partito che ha fra i suoi padri fondatori un latitante, no?
Ecco, per chi pensasse che non è bello un partito co-fondato da un latitante, fermi la propria indignazione o la propria riprovazione perché tra i padri fondatori Craxi probabilmente è il più pulito. Nel senso che, magari ci arriviamo al prossimo congresso, prima o poi sentiremo il Cavaliere ammettere anche il nome di altri padri fondatori di Forza Italia, che per il momento restano ancora abbastanza nell'ombra.
Quando voi vedrete a un prossimo congresso, non so... quando gli metteranno la corona o gli poseranno la spada sulla spalla o si metterà lo scolapasta in testa e il mestolo in mano e comincerà a declamare in lingue strane, se solleciterà una standing ovation per Vittorio Mangano sappiate che quello è il momento: finalmente un altro padre, o padrino, fondatore di Forza Italia verrà allo scoperto. Per il momento ci dobbiamo accontentare di quello che siamo riusciti a scrivere nei nostri libri, perché noi scriviamo nei nostri libri delle cose e poi dieci anni dopo Berlusconi arriva e le dice, e tutti i giornali le annotano dicendo “Berlusconi rivela...”. No, Berlusconi non rivela niente: confessa tardivamente, di solito quando le cose sono andate in prescrizione.
Allora, per essere precisi perché molto spesso si fa letteratura, Mangano, non Mangano, sarà vero o non sarà vero.
Io vi cito semplicemente quello che noi sappiamo per certo sul ruolo che ebbe Vittorio Mangano in tandem con Marcello Dell'Utri nella nascita di Forza Italia.
Un po' di date: il 25 maggio del 1994, strage di Capaci. Qualche giorno dopo Ezio Cartotto, che è un vecchio democristiano della sinistra DC milanese che teneva delle lezioni e delle consulenze ai manager e ai venditori di Publitalia e che quindi lavorava per Dell'Utri, viene chiamato da Dell'Utri. Siamo nell'estate del 1992, tangentopoli è appena esplosa, non c'è ancora nessun, nessun politico nazionale indagato dal pool di Mani Pulite: hanno preso Mario Chiesa, hanno preso i due ex sindaci di Milano Tognoli e Pillitteri, hanno preso un po' di amministratori locali democristiani, comunisti, socialisti.
Eppure Dell'Utri, evidentemente con le buone fonti che ha a Palermo, ha già deciso che la classe politica della prima Repubblica è già alla frutta e non si salverà e quindi a scanso di equivoci chiama Cartotto e, in segreto, senza nemmeno parlarne con Berlusconi, gli commissiona – dice Cartotto - “di studiare un'iniziativa politica legata alla Fininvest”.
Poi c'è la strage di Via D'Amelio, preceduta dalla famosa intervista dove Paolo Borsellino ha detto che a Palermo ci sono ancora indagini in corso sui rapporti fra Berlusconi, Dell'Utri, Mangano e il riciclaggio del denaro sporco.
Dopo avere dato quell'intervista, passano nemmeno due mesi e Borsellino viene eliminato a sua volta. Intanto Cartotto lavora come una talpa: lo sa solo Dell'Utri. Berlusconi, questo lo trovate negli atti del processo Dell'Utri e noi in Onorevoli Wanted e anche nel libro arancione “L'amico degli amici” abbiamo raccontato dilungandoci questa vicenda che ha semplicemente dell'incredibile. O almeno, avrebbe dell'incredibile se qualcuno la conoscesse, se qualcuno l'avesse raccontata in questi giorni in cui tutti facevano i retroscena della nascita di Forza Italia. Si sono dimenticati questi popò' di retroscena.
Nell'autunno del 1992 Berlusconi viene informato del fatto che farà un partito, perché i primi a saperlo sono Dell'Utri e Cartotto. Da' il suo via libera al progetto, che prosegue tramite le strutture di Publitalia all'ottavo piano di Palazzo Cellini a Milano 2, dove ha gli uffici Dell'Utri.
Il progetto viene chiamato “Progetto Botticelli”, viene camuffato da progetto aziendale, in realtà è un progetto politico che sfocerà in Forza Italia, e poi ci sono tutte le riunioni di quando Berlusconi comincia a consultarsi con i suoi uomini.
Ovviamente, non solo i manager del gruppo ma anche i direttori dei giornali e dei telegiornali, che sono sempre i vari Costanzo, Mentana, Fede, Liguori e ovviamente Confalonieri, Dell'Utri, Previti, Ferrara. Montanelli non ci andava, ma ci andava Federico Orlando che poi ha scritto un libro, anche quello molto interessante: “Il sabato andavamo ad Arcore” pubblicato dalla Larus di Bergamo.
Poi ha scritto un altro libro “Fucilate Montanelli”, nel quale si raccontano, per gli Editori Riuniti, questi fatti.
Le riunioni ad Arcore

In queste riunioni ci sono discussioni, perché Berlusconi è preoccupatissimo. C'è il referendum elettorale che ha portato l'Italia alla preferenza unica e si va verso l'uninominale, c'è la scomparsa nella primavera del 1993 dei vecchi partiti che gli avevano garantito protezione per vent'anni, c'è la necessità di sostituirli con qualcosa che sia talmente forte da sconfiggere la sinistra che sembra approfittare del degrado morale che sta emergendo soprattutto, ma non solo, per i partiti del centrodestra – poi il PCI era coinvolto anche nella sua ala milanese ma non a livello nazionale nello scandalo di tangentopoli. E soprattutto c'è tutto il problema delle concessioni televisive e di chi andrà a governare il Paese e quindi a regolare la materia delle concessioni televisive che Berlusconi aveva appena sistemato con la famosa legge Mammì e quei famosi 23 miliardi finiti sui conti esteri della All Iberian di Craxi subito dopo la legge Mammì.
Allora c'è grande allarme, c'è grande preoccupazione: sarà meglio entrare o sarà meglio non entrare? C'è tutta la manfrina “facciamo un partito di centrodestra e poi lo consegniamo chiavi in mano a Segni e Martinazzoli perché vadano avanti loro, oppure lo facciamo noi?”. Questo era il dibattito, che nell'aprile del 1993 segna la benedizione ufficiale di Craxi con quella riunione che vi dicevo prima ad Arcore con Ezio Cartotto.


La mafia e la nuova Repubblica

Poi ci sono altre discussioni, ci sono ancora i frenatori come Confalonieri, Gianni Letta, Maurizio Costanzo che sono piuttosto ostili al progetto, o meglio temono che per Berlusconi sia un autogol.
Sarà un caso, ma proprio il 14 maggio del 1993 la mafia fa un attentato a Roma, il primo attentato a Roma nella storia della mafia, il primo attentato fuori dalla Sicilia nella storia della mafia viene fatto a Roma nel quartiere dei Parioli. Contro chi? Ma guarda un po': Maurizio Costanzo che sfugge poi, fortunatamente, per un centesimo di secondo.
Quel Costanzo che stava nella P2: evidentemente qualche ambientino non si aspettava che fosse ostile alla discesa in campo. Perché lo dico? Perché in quello stesso periodo in Sicilia e in tutto il sud ovest, anche Calabria, si muovevano delle strane leghe meridionali che, in sintonia con la Lega Nord – c'era stato addirittura a Lamezia Terme con un rappresentante della Lega Nord – si proponevano di secedere, di staccare Sicilia, Calabra... infatti si chiamavano “Sicilia libera”, “Calabria libera”. Era tutto un fronte di leghe molto strano: invece di esserci i padani inferociti lì c'erano strani personaggi legati un po' alla mafia, un po' alla 'ndragheta e un po' alla P2 e uno di questi, il principe Orsini che aveva legami con questi personaggi, aveva legami anche con Marcello Dell'Utri.
Quindi noi sappiamo che Dell'Utri – lo ha dimostrato Gioacchino Genchi, ma guarda un po', andando a incrociare i telefoni e i tabulati di questi personaggi – aveva contatti diretti con questo Principe Orsini. Dell'Utri inizialmente tiene d'occhio questi ambienti, perché sono le organizzazioni mafiose, legate a personaggi della P2 e dell'eversione nera, che si stanno mettendo insieme perché sentono odore di colpo di Stato, sentono odore di nuova Repubblica e vogliono far pesare, ancora una volta, la loro ipoteca con un partito o una serie di partiti nuovi.
Come Sicilia Libera, della quale si interessano direttamente boss come Tullio Cannella, Leoluca Bagarella, i fratelli Graviano e Giovanni Brusca.
Dopodiché succede qualcosa, succede che dopo l'attentato a Costanzo e dopo gli attentati che seguono – alla fine di maggio c'è l'attentato a Firenze, ci sono addirittura cinque morti e diversi feriti; poi alla fine di luglio ci sono gli attentati di Milano e Roma con altri cinque morti e diversi feriti – questa strategia terroristica ad ampio raggio, della mafia, sortisce i risultati sperati: Riina non stava sparando all'impazzata, stava facendo la guerra per fare la pace con lo Stato, così disse ai suoi uomini.
Una nuova pace con nuovi soggetti e referenti politici che però, a differenza di quelli vecchi che ormai erano agonizzanti, fossero vivi, vegeti, reattivi e in grado, fatto un accordo, di rispettarlo.
E' l'estate del 1993 quando Forza Italia è ormai decisa: Berlusconi nell'aprile-maggio ha comunicato a Montanelli che entrerà in politica e che quindi il Giornale dovrà seguirlo nella battaglia politica. Montanelli gli ha detto che se lo può scordare: tra l'estate e l'autunno sono mesi in cui si consuma la rottura tra Montanelli e Berlusconi perché Montanelli continua a scrivere che Berlusconi non deve entrare in politica perché c'è un conflitto di interessi, perché non si può fare due mestieri insieme.
Dall'altra parte, ci sono le reti Fininvest che bombardano Montanelli per indurlo alle dimissioni, perché era diventato un inciampo: il giornalista più famoso dell'ambito conservatore che si scatenava contro quello che doveva diventare, secondo i desideri di Berlusconi, un partito moderato, liberale, insomma il partito che avrebbe dovuto incarnare gli ideali di cui Montanelli era sempre stato l'alfiere e che invece Montanelli sapeva benissimo non avrebbe potuto incarnare perché Berlusconi è tutto fuorché un moderato e un liberale: è un estremista autoritario.
In quei mesi la mafia decide di abbandonare il progetto di Sicilia Libera che essa stessa aveva patrocinato e fondato e tutto ciò avviene in seguito a una serie di riunioni, nell'ultima delle quali Bernardo Provenzano – ce lo racconta il suo braccio destro, Nino Giuffré che ora collabora con la giustizia e che è stato ritenuto attendibile in decine e decine di processi compreso quello Dell'Utri – convoca le famiglie mafiose, la cupola, per sapere che cosa scelgono: se preferiscono andare avanti col progetto del partitino regionale Sicilia Libera o se invece non preferiscano una soluzione più tradizionale come quella che sta affacciandosi a Milano grazie all'opera di un loro vecchio amico: Marcello Dell'Utri che conoscevano fin dai primi anni Settanta come minimo, cioè da quando Dell'Utri, in rapporto con un mafioso come Cinà e un mafioso come Mangano, aveva portato quest'ultimo dentro la casa di Berlusconi.
Si potrà discutere se l'ha fatto consapevolmente o inconsapevolmente, ma il fatto c'è: ha dato a Cosa Nostra la possibilità di entrare dentro la casa privata e di stazionare con un proprio rappresentante dentro la casa privata di uno dei più importanti e promettenti finanzieri e imprenditori dell'epoca. Berlusconi era costruttore, in quel periodo, poi sarebbe diventato editore e poi politico.


Gli incontri tra Mangano e Dell'Utri

E' strano che non si trovi più nessuno, ma nemmeno all'estrema sinistra, che ricordi questi fatti documentati. Ancora nel novembre del 1993 quando ormai per Forza Italia si tratta proprio di stabilire i colori delle coccarde e delle bandierine, c'erano i kit del candidato, stavano facendo i provini nel parco della villa di Arcore per vedere i candidati più telegenici; in quel periodo, a tre mesi dalle elezioni del marzo del 1994, Mangano incontra due volte Dell'Utri a Milano. E questa non è una diceria, c'è nelle agende della segretaria di Dell'Utri: Palazzo Cellini, sede di Publitalia, Milano 2, i magistrati arrivano e prendono le agende e nell'agenda del mese di novembre del 1993 si trovano due appuntamenti fra Dell'Utri e Mangano, il 2 novembre e il 30 novembre.
E Mangano chi era, in quel periodo? Non era più il giovane disinvolto del '73-'74 quando fu ingaggiato e portato ad Arcore come stalliere: qui siamo vent'anni dopo.
Mangano era stato in galera undici anni a scontare una parte della pena complessiva di 13 anni che aveva subito al processo Spatola per mafia e al maxiprocesso per droga, due processi istruiti da Falcone e Borsellino insieme.
E' stato definitivamente condannato per mafia e droga a 13 anni, ne aveva scontati 11, uscito dal carcere nel 1991 era diventato il capo reggente della famiglia mafiosa di Portanuova e grazie al suo silenzio in quella lunga carcerazione aveva fatto carriera e partecipato alle decisioni del vertice della mafia di fare le stragi.
E poche settimane dopo le ultime stragi di Milano e Roma, Dell'Utri incontra un soggetto del genere a Milano negli uffici dove sta lavorando alla nascita di Forza Italia.
Io non so se tutto questo sia penalmente rilevante, lo decideranno i magistrati: penso che sia politicamente e storicamente fondamentale saperlo, mentre si vede Gianfranco Fini che cita Paolo Borsellino al congresso che sta incoronando il responsabile di tutto questo, cioè Berlusconi.
Verrebbe da dire “pulisciti la bocca”.
Possibile che invece di abboccare a tutti i suoi doppi giochi, quelli del centrosinistra non – ma dico uno, non dico tutti, li conosciamo, fanno inciuci dalla mattina alla sera e sono pronti a ricominciare con la Costituente come se non gli fosse bastata la bicamerale – uno, di quelli anche più informati, che dica “ma come ti permetti di parlare di Borsellino? Leggiti quello che diceva, Borsellino, di questi signori in quella famosa intervista prima di morire”.
Leggiti quello che c'è scritto nella sentenza Dell'Utri e poi vergognati, perché quel partito lì non l'ha fondato lo spirito santo, l'hanno fondato Berlusconi, Dell'Utri, Craxi con l'aiuto di Mangano che faceva la spola fra Palermo e Milano, infatti le famiglie mafiose decidono di votare per Forza Italia e di abbandonare Sicilia Libera – che viene sciolta nell'acido probabilmente – quando Mangano arriva giù a portare le garanzie.


Bettino, Silvio e Marcello

Io concludo questo mio intervento, che racconta l'altra faccia della nascita e delle origini di Forza Italia e quindi della Seconda Repubblica, semplicemente leggendovi quello che hanno scritto e detto prima Ezio Cartotto, piccolo brano, e i giudici di Palermo.
Cartotto dice: “Craxi ci disse – in quella famosa riunione in cui si aprì la porta – che bisogna trovare un'etichetta, un nome nuovo, un simbolo, qualcosa che possa unire gli elettori moderati che un tempo votavano per il pentapartito. Con l'arma che hai tu, Silvio, in mano delle televisioni, attraverso le quali puoi fare una propaganda martellante”. Mh... “Ti basterà organizzare un'etichetta, un contenitore – una volta è Forza Italia, una volta la CdL, una volta il PdL -, hai uomini sul territorio in tutta Italia, puoi riuscire a recuperare quella parte di elettorato che è sconvolto, confuso ma anche deciso a non farsi governare dai comunisti e salvare il salvabile”.
Vedete che Berlusconi continua a ripetere le stesse cose che gli aveva detto Craxi, quindici anni dopo non ha ancora avuto un'idea originale.
Berlusconi invece era ancora disorientato, in quel momento, tant'è che dice: “mi ricordo che mi diceva: 'sono esausto, mi avete fatto venire il mal di testa. Confalonieri e Letta mi dicono che è una pazzia entrare in politica e mi distruggeranno, che faranno di tutto, andranno a frugare tutte le carte e diranno che sono un mafioso”.
Questo diceva Berlusconi nella primavera del 1993. Domanda: ma come può venire in mente a un imprenditore della Brianza di pensare che se entra in politica gli diranno che è un mafioso? E' mai venuto in mente a qualche imprenditore della Brianza che qualcuno potrà insinuare che è un mafioso? Ma uno potrà insinuare che è uno svizzero, piuttosto, ma che è un mafioso no! Cosa c'entra? Strano che lui avesse questa ossessione, no?
“Andranno a frugare le carte e diranno che sono un mafioso” già, perché evidentemente in certe carte si potrebbe anche trarre quella conclusione lì.
“Che cosa devo fare? A volte mi capita perfino di mettermi a piangere sotto la doccia”. Queste erano le condizioni psicologiche, umane del personaggio, disperato perché sapeva che Mani Pulite sarebbe arrivata a lui ben presto, e non solo mani pulite visto che temeva addirittura di finire dentro per mafia.
I giudici di Palermo, nella sentenza Dell'Utri, nove anni di reclusione e interdizione dai pubblici uffici in primo grado, scrivono: i rapporti tra Dell'Utri e Cosa Nostra “sopravvivono alle stragi del 1992 e 1993, quando i tradizionali referenti, non più affidabili, venivano raggiunti dalla vendetta di Cosa Nostra – i vecchi politici: Lima, Salvo... - e ciononostante il mutare della coscienza sociale di fronte al fenomeno mafioso nel suo complesso”.
Cioè Dell'Utri nonostante la gente cominci veramente ad appassionarsi all'antimafia dopo la morte di Falcone e Borsellino, rimane sempre lo stesso.
Esistono “prove certe della compromissione mafiosa dell'imputato Dell'Utri anche relativamente alla sua stagione politica – quella di cui abbiamo parlato -. Forza Italia nasce nel 1993 da un'idea di Dell'Utri il quale non ha potuto negare che ancora nel novembre del 1993 incontrava Mangano a Milano mentre era in corso l'organizzazione del partito Forza Italia e Cosa Nostra preparava il cambio di rotta verso la nascente forza politica”.
Dell'Utri incontrava Mangano nel 1993 e poi anche nel 1994 “promettendo alla mafia precisi vantaggi politici e la mafia si era vieppiù orientata a votare Forza Italia”.
Tutto questo è scritto in una sentenza di primo grado, che naturalmente aspetta conferme o smentite in appello e in Cassazione.
Però è strano che non si sia trovato nessuno che la citasse in questi giorni tra un retroscena e l'altro.
Io penso che sia fatta giustizia, spero che prima o poi, invece di usarlo soltanto per raccattare qualche voto sporco in campagna elettorale, tributino finalmente nel prossimo congresso i giusti onori anche al padre fondatore, anzi al padrino co-fondatore, Vittorio Mangano.
Passate parola."

sabato 28 marzo 2009

"QUESTI SLAVI BARBARI E INFERIORI PARLERANNO SOLTANTO ITALIANO"


"QUESTI SLAVI BARBARI E INFERIORI
PARLERANNO SOLTANTO ITALIANO"

di FERRUCCIO GATTUSO

Venezia Giulia tra deslavizzazione e foibe.
Solo da pochi anni, la storiografia del nostro paese sta cominciando a gettare il proprio sguardo sul tragico evento detto delle foibe. Ragioni di opportunità politica, più spesso di pavidità, hanno consigliato che - sul massacro sistematico compiuto tra il maggio e il giugno 1945 dalle forze tito-comuniste nei confronti dei gruppi di nazionalità italiana in territorio giuliano - calasse una cappa di silenzio.
Il crollo del comunismo, con il conseguente mutamento dei ruoli sulla scena internazionale, ha portato a una situazione favorevole al raggiungimento della verità. Prima il rapporto di alleanza tra forze comuniste italiane e iugoslave, poi il ruolo strategico che poteva svolgere la Yugoslavia di Tito, ribelle a Stalin e all'URSS dal 1948 e quindi utile all'Occidente, fecero sì che vincesse la politica degli "occhi chiusi".

Le foibe - le fenditure carsiche nelle quali vennero gettati, morti e vivi, legati fra loro, fino a diecimila italiani (ma sulle cifre persistono controversie), in una vera e propria mattanza etnica ad opera dei partigiani titoisti - sono rimaste, così, un "imbarazzo" tra Italia e Yugoslavia, uno scheletro da lasciare nell'armadio, magari spiegandolo sommariamente come una "naturale" reazione alla politica e alle persecuzioni fasciste, anti-slave, nella regione di confine.

Data questa premessa sulla necessità di dare una giusta dimensione alla tragedia delle foibe, e auspicando che la loro cruda verità possa un giorno essere insegnata nelle nostre scuole, con questo articolo vogliamo compiere un viaggio, per quanto sintetico, proprio negli eventi precedenti, e cioè nella politica di denazionalizzazione e deslavizzazione attuata dal movimento e dal regime fascisti in territorio giuliano, sin dalla sua ascesa al potere. In qualche caso, ancora prima. Precisando che questi fatti non costituiscono - in alcun modo, per nessun motivo - una scusante o un'attenuante per l'incubo delle foibe che seguì.

Italia liberale e regime fascista: politiche di confine
Basti in questa sede un accenno alla percezione che la popolazione slava ebbe, all'indomani della Prima guerra mondiale, della presenza del governo italiano in territorio giuliano e in genere nel Nord-Est. La storiografia slovena non fa infatti molta differenza tra le strategie attuate dal governo liberale che emerse vittorioso dal conflitto del '15-'18 e il successivo regime fascista: l'azione delle autorità militari italiane fu comunque quella di limitazione delle attività degli intellettuali sloveni e della chiusura di molte scuole di lingua slovena. La storiografia italiana imputa la presenza delle misure "anti-slave" adottate come un segno di impreparazione e di pressappochismo delle autorità locali regie, che avrebbero dovuto attenersi alle direttive di Roma - miranti ad un inserimento morbido e graduale di queste terre nel Regno - e che si videro condizionate dall'atteggiamento aggressivo dei nazionalisti e dei militari presenti sul territorio.

L'impresa di Fiume, compiuta da Gabriele D'Annunzio, sebbene distaccata dalla cornice giuliana, contribuì indubbiamente ad esacerbare gli animi e a radicalizzare la situazione. Un altro elemento importante fu l'accostamento tra antislavismo e anticomunismo, in un quadro schematico che riemergerà, più vivo che mai, nel secondo dopoguerra, questa volta a danno degli italiani. Per i partigiani titini "italiano e fascista" sarebbe divenuto una tautologia. In ogni caso, le forze socialiste italiane si dimostrarono sempre solidali con le popolazioni slave e, in specifico, slovene, e il fascismo ebbe gioco facile nel coniare terminologie come "slavocomunista".

A sostenere l'operato antislavo del movimento fascista, e delle compiacenti autorità locali di ispirazione nazionalista, vi era anche la carta scritta: quella del Trattato di Rapallo del novembre 1920, che avrebbe dovuto regolare un certo equilibrio tra le varie comunità di nazionalità differenti nella regione, ma che alla fine risultò essere (non dimentichiamo che gli italiani vi parteciparono da vincitori del conflitto mondiale) uno strumento per arginare gli slavi: l'Italia non si vedeva obbligata a particolari misure di tutela delle minoranze slovena e croata, mentre otteneva particolari diritti e strumenti di difesa per la comunità italiana in Venezia Giulia. È questa quindi l'atmosfera nella quale accadono gli eventi dell'Hotel Balkan.

Fiamme all'Hotel Bakan
Si può dire che il primo atto che segna l'approdo del fascismo in terra giuliana sia l'incendio dell'Hotel Balkan, a Trieste. È il 13 luglio 1920, e l'atmosfera è resa elettrica da poche ore: a Spalato, il giorno prima, alcuni ufficiali della Marina italiana appartenenti alla nave "Puglia" si erano impossessati di una bandiera iugoslava, generando scontri con la popolazione dalmata. In questi scontri non mancarono i morti, su entrambi i fronti. Lo scenario, da qualche mese, esattamente dalle prime settimane dello stesso anno, si era radicalizzato con l'arrivo nel Nord-Est di un uomo di Mussolini, l'attivista Francesco Giunta, laziale, completamente avulso dalla conoscenza del territorio, dei complessi equilibri sociali ed etnici. Una scintilla, in una polveriera. Fu proprio Giunta a raccogliere a Trieste, in Piazza Unità, una moltitudine di fascisti e di gruppi d'ispirazione nazionalista italiana per una manifestazione dichiaratamente antislava. Il comizio tenuto da Giunta è di quelli che accendono gli animi: non è certo l'arma della retorica che manca ad un attivista come lui. In Piazza Unità si registrano così le prime intemperanze, che vedono la morte di un giovane italiano di nome Giovanni Nini.

Le cronache non furono mai chiare sull'accaduto, ma c'è più di una probabilità - come ricorda Gianni Olivia nel suo "Foibe" - che l'incidente fosse stato "provocato ad arte per scatenare la folla". L'effetto è quello di scatenare gli squadristi fascisti che, in massa, si dirigono vero quello che, per gli italiani, era conosciuto come l'Hotel Balkan, e per gli slavi il Narodni Dom, letteralmente "casa del popolo". Tra queste mura venivano ospitate tutte le principali organizzazioni economiche e culturali della comunità slovena triestina, divenendo di conseguenza il simbolo più importante degli slavi della zona. Quando gli squadristi irrompono nell'Hotel Balkan, l'edificio è fortunatamente vuoto ma ciò che ne seguirà - un'impressionante devastazione sistematica - viene ricordata dallo stesso Renzo De Felice nel suo "Mussolini il rivoluzionario" "il vero battesimo dello squadrismo organizzato".

Le "prove" all'Hotel Balkan, oltre a segnare un momento tristemente importante nella storia del fascismo di confine e della politica di deslavizzazione, furono la base sulla quale il movimento fascista organizzò tutte le sue azioni successive, a cominciare dalle "cacce" ad opera della camice nere nelle campagne padane.
L'Hotel Balkan viene incendiato, e gli squadristi impediscono l'intervento dei vigili del fuoco: nelle fiamme del "Narodni Dom" salgono al cielo archivi, testimonianze, libri, la memoria della comunità slovena triestina. Vi sono delle vittime: le uniche persone all'interno dell'edificio sono lo sloveno Hugen Roblek e sua figlia, che si gettano dal primo piano. Roblek muore sul colpo, la figlia sopravvive.

Nelle ore e nei giorni che seguono, la violenza fascista non si arresta: squadracce di camice nere assaltano la tipografia del giornale "Edinost", le sedi delle banche slovene, studi e uffici di professionisti sloveni, nell'indifferenza delle autorità regie e delle forze dell'ordine. Il futuro Duce avrebbe definito l'operazione "il capolavoro del fascismo triestino". Il fascista Rino Alessi, che avrebbe diretto il quotidiano "Il Piccolo" negli anni del regime, commentò così quei giorni: "Le grandi fiamme del Balkan purificano finalmente Trieste, purificano l'anima di tutti noi".

La "vittoria mutilata", terreno fertile per il fascismo Non vi è dubbio che il movimento fascista poteva contare su diversi fattori ad esso congeniali per esacerbare la situazione in territorio giuliano: il tema della "vittoria mutilata" si rivelò fondamentale. Il patto di Londra stipulato nel 1915, alla vigilia dell'intervento bellico dell'Italia al fianco degli Alleati, aveva comportato alcune promesse, che nel dopoguerra sembravano smentite da Francia, Stati Uniti e Inghilterra. L'Italia avrebbe dovuto espandersi nei territori di Trieste, Gorizia e Istria.
La creazione di uno stato iugoslavo indipendente - decisa alla Conferenza di Pace di Parigi - crea però un caso internazionale non indifferente: il principio dell'autodeterminazione dei popoli avanzato dal presidente americano Wilson risultava essere una miccia in una polveriera: quale confine dare all'Italia? Alla fine, per oltre trecentomila sloveni, l'annessione al Regno sabaudo verrà sentito come un'imposizione. Il repertorio, in questi casi, è purtroppo noto: in attesa della definizione dei confini, le autorità italiane cercano di nazionalizzare a forza determinate aree, presentandole come indubbiamente italiane. Se gli sloveni ambiscono ad unirsi al Regno iugoslavo indipendente che sta per nascere, gli italiani favoriscono tutte le possibili manifestazioni nazionaliste. E, in questo quadro, i fascisti nuotano come pesci in un acquario:

"Di fronte ad una razza inferiore e barbara come la slava - commenterà Mussolini nel settembre 1920 durante un suo "tour" in Friuli e Venezia Giulia - non si deve seguire la politica che dà lo zuccherino, ma quella del bastone. I confini dell'Italia devono essere il Brennero, il Nevoso e le Dinariche: io credo che si possano sacrificare 500.000 slavi barbari a 50.000 italiani".

Gli eventi che seguiranno a queste parole sono il consolidamento della federazione fascista di Trieste - che nella primavera del 1921 diventa la maggiore di tutta Italia, con quasi quindicimila iscritti - e le operazioni squadriste in occasione delle elezioni politiche del maggio dello stesso anno: le camice nere entrano in azione in tutto il territorio giuliano e friulano, a Trieste, come Gorizia, Monfalcone, Pordenone, in definitiva nei maggiori centri urbani industriali, dove la maggioranza restava italiana. Le operazioni delle squadracce si allargano a macchia d'olio, poi, verso la campagna, a maggioranza slava, slovena e croata. Vengono colpite tutte le associazioni e in genere tutte le strutture di aggregazione slave, i circoli del dopolavoro. In occasione dell'appuntamento elettorale, il già citato Giunta, l'uomo del Duce, tiene saldamente le redini del movimento ed è il boss locale incontrastato. Tutto è pronto, ora, per l'opera di definitiva deslavizzazione. Con alle spalle un governo, finalmente fascista.

Il fascismo al potere: la politica del regime nel territorio giuliano
Per il nuovo regime fascista che si instaura nell'ottobre 1922, la politica del cosiddetto "fascismo di confine" diventa una bandiera da sventolare in nome del nazionalismo e dell'italianità. Una politica aggressiva nel Nord-Est, e nei Balcani era naturalmente nell'ordine delle cose, e nella natura della dittatura che, nei mesi a seguire, si sarebbe progressivamente instaurata. La politica di deslavizzazione partiva dall'assioma che le comunità slovene di confine non avessero mai condiviso un sentimento di unità nazionale, essendo state appartenenti all'ormai dissolto Impero austro-ungarico.

Tra le prime misure locali del governo Mussolini ci sono gli effetti della Riforma Gentile del 1923: nelle scuole pubbliche di stato l'unica lingua ammessa è l'italiano. Questo provvedimento mira ad una deslavizzazione linguistica a lungo termine (e difatti il regime si rivelerà alquanto efficiente con interventi sulla toponomastica della regione). Un altro provvedimento attuato dal governo Mussolini è la creazione dell'Ispettorato speciale del Carso, un'istituzione che avrebbe controllato militarmente le campagne slovene. Poste sotto la guida di Emilio Grazioli, le squadre fasciste attuano operazioni di intimidazione, che si fanno via via sempre più crude con il consolidarsi del regime.

Dopo il 1925, la politica di snazionalizzazione corre a passo spedito: viene proibito l'uso di lingue diverse dall'italiano nei tribunali, e negli uffici amministrativi. Successivamente, in tutti i negozi e in tutti i luoghi pubblici. Si proibisce che in suddetti luoghi si canti o si discuta in lingua slava. Come detto, i nomi delle località vengono tutti italianizzati, le insegne dei negozi in lingua croata e slovena vengono rimosse. Ulteriore provvedimento, quello che colpisce la stessa identità della persona: il regio decreto del 7 aprile 1927 sentenzia l'italianizzazione dei cognomi. Per fare solo un esempio, il comunissimo cognome Vidalich diventa di conseguenza Vidali.
Nel giugno 1927 il regime fascista, attraverso il Ministero dell'Interno stringe il cerchio intorno agli elementi più significativi della cultura slava: quasi tutte le organizzazioni culturali ed economiche slovene e croate della Venezia Giulia vengono soppresse, i beni vengono confiscati, e si lasciano esistere solo alcune società di assistenza e di mutuo soccorso. Condizione che durerà solo fino alle porte degli anni trenta. Dopodiché qualsiasi presenza slava - che il regime definisce, con termine spersonalizzante, "allogena" - scompare.

Evidentemente, nella scuola l'operato della politica fascista di deslavizzazione si rivela inesorabile: i giovani sono la classe dirigente del futuro, e la proibizione delle lingue "allogene" in qualsiasi situazione scolastica, come detto, è la cosa più scontata. Non solo: ogni scuola slava viene chiusa (l'ultima a chiudere è la scuola privata slovena del quartiere San Giacomo a Trieste, nel 1930). Legato al tema dell'istruzione è quello dell'interpretazione e lettura degli avvenimenti storici: tutto passa sotto l'occhio revisionista e "normalizzatore" del nazionalismo italiano. A guidare questa politica è il provveditore di Trieste, il siciliano Giuseppe Reina, autore del bollettino intitolato "Scuola di confine", che porta alla chiusura di ogni istituto non italiano e alla rimozione di qualsiasi insegnante "allogeno".

Un altro fronte sul quale il "fascismo di confine" combatté la sua battaglia di deslavizzazione fu quello del clero e dei rapporti con la Chiesa cattolica: dopo l'insegnate, il prete parrocchiano così come la dirigenza ecclesiastica della regione giuliana andavano "normalizzati". Nel clero la società rurale (e quindi a maggioranza slava) si identificava per tradizione: e proprio i preti vengono visti come la minaccia primaria, nella loro difesa dei valori culturali delle genti slovene e croate. Ovviamente, i primi ad essere colpiti sono i sacerdoti sloveni e croati: gli squadristi non perdonano, e si rendono protagonisti di aggressioni fisiche e, intimidazioni nei casi più innocui, e di attacchi a canoniche. A queste azioni formalmente irregolari degli anni prima del 1922, si sostituisce la politica sistematica del regime fascista.

Lo Stato - secondo disposizioni del 1925 - non può permettere che, in queste zone di confine, vi siano sacerdoti che officino la messa in lingua croata o slovena. Il congresso dei fascisti istriani di quello stesso anno afferma che "il fascismo poggia su tre cardini: Dio, Patria, Famiglia". Tuttavia, precisa in un documento, "noi affermiamo che in Italia si può pregare solo in italiano". La posizione del regime mette in chiara difficoltà la comunità cattolica italiana, che si vede costretta tra la "necessità" del patriottismo e il credo universalistico.
Il Concordato del 1929, si può dire, aggrava la situazione: la Chiesa è venuta a patti con Mussolini e, per assicurarsi vantaggi di posizione, accetta di mettere in condizione di non nuocere alcune figure rappresentative giuliane, come l'Arcivescovo di Gorizia, Monsignor Borgia Sedej, e il Vescovo di Trieste, Monsignor Luigi Fogar. Questi due importanti personaggi cercano di difendere l'autonomia della Chiesa dal regime fascista, così come il diritto delle comunità croate e slovene di potere celebrare messe in lingua slava.
Tra il 1931 e il 1936, Sedej e Fogar vengono allontanati, e sostituiti con figure più malleabili e accondiscendenti verso il fascismo. All'interno del clero si creano fronti contrapposti: alti prelati come Monsignor Antonio Santin, o Monsignor Giuseppe Nogara - il primo Vescovo di Trieste, il secondo Arcivescovo di Udine - affermano senza mezzi termini la necessità del nazionalismo nella regione. Nelle campagne, però, molti sacerdoti continuarono a officiare messa in croato e sloveno, generando attriti che, a questo punto, si trasformavano in lotte di potere gerarchico all'interno del clero.
Nella stessa società giuliana, poi, il regime fascista mette in campo tutte le tecniche di ogni sistema totalitario: polizia segreta, delatori, capillare controllo sociale. La comunità slava reagisce con organizzazioni clandestine, soprattutto composte da giovani, come il "Tigr" (dalle sigle slovene di Trieste, Istria, Gorizia e Rijeka, N.d.R.), di orientamento a sua volta nazionalista, collegata ai servizi segreti iugoslavi e disposta la terrorismo. La repressione fascista che seguiva agli atti terroristici era evidentemente durissima. Accanto ai nazionalisti, non mancano i comunisti: la "Borba" (letteralmente, "lotta"), praticava sabotaggi a impianti militari e delle comunicazioni, così come incendi a scuole italiane e a sedi fasciste. Tra le figure più combattive del "Tigr" va menzionato Pinko Tomazic, giovane intellettuale sloveno. Che cercò di coniugare nazionalismo e internazionalismo di differenti colori politici nella comune lotta antifascista. Tomazic troverà la morte nel 1941, con l'accusa di cospirazione armata, in seguito alla sentenza del Tribunale Speciale convocato a Trieste nel mese di dicembre.

Una strategia di più ampio respiro si rivela quella dell'allontanamento fisico delle popolazioni slave dalle proprie terre, quindi una vera e propria "bonifica etnica", che il regime fascista attua: tra il 1928 e il 1930 vengono sciolte tutte le cooperative di acquisto e vendita e le casse rurali, di tutti gli istituti finanziari dei quali si avvalevano i contadini croati e sloveni. Gli istituti finanziari italiani propongono tassi di interesse proibitivi e così non resta che l'esodo. Oltre ad una crisi economica prodotta, si può dire, ad arte, e che avrà ripercussioni su tutta l'area balcanica, per molti anni a venire. Gli agricoltori sloveni e croati devono mettere all'asta le proprietà, arraffate da speculatori senza scrupoli. Il regime rende "scientifica" questa operazione istituendo l'Ente per la rinascita agraria delle Tre Venezie, che rileva le terre messe all'asta degli "allogeni" e le assegna ai coloni italiani. Eppure, la presenza slava nella regione resterà mediamente alta: molti agricoltori preferiranno passare da proprietari a dipendenti dei nuovi padroni italiani, piuttosto che abbandonare la terra.

Non c'è dubbio che la politica fatta di soppressioni e intimidazioni del fascismo di confine abbia contribuito a rafforzare nelle popolazioni croate e slovene locali l'equazione italiano/fascista, che avrebbe portato successivamente, alla metà degli anni quaranta ad esiti tragici, durante la guerra di liberazione.
Il partito comunista italiano, poi, seppe inserirsi benissimo in questa situazione, alleandosi con i "compagni" slavi e realizzando un'intensa campagna propagandistica nella comunità croata e slovena. Italiani e slavi, sotto le bandiere del comunismo e dell'internazionalismo, avrebbero combattuto nazisti e fascisti (nella primavera del 1941 le truppe dell'Asse avrebbero infatti invaso il regno di Yugoslavia, smembrandolo).

L'imbarazzo sarebbe venuto solo molti anni dopo, nei giorni dello scisma tra Tito e Stalin, nel giugno 1948: la fratellanza tra comunisti italiani e iugoslavi diventava "eresia", e anzi Tito sarebbe stato considerato a capo di una "cricca fascista". Ma questa, come si dice, è un'altra storia.